Prima lettera ai Tessalonicesi 2:1-20

2  Voi stessi sapete bene, fratelli, che la visita che vi abbiamo fatto non è stata infruttuosa.+  Infatti, sebbene a Filippi avessimo sofferto e ricevuto insulti,+ come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi la buona notizia di Dio+ nonostante una grande opposizione.  E l’esortazione che diamo non nasce da falsità o da motivi impuri e non è ingannevole;  al contrario, dal momento che Dio ci ha ritenuto degni dell’incarico di predicare la buona notizia, parliamo per piacere non agli uomini, ma a lui, che esamina il nostro cuore.+  Sapete bene, infatti, che non abbiamo mai fatto ricorso a parole adulatrici o ad atteggiamenti di facciata per avidità;+ Dio ne è testimone!  Non abbiamo neppure cercato gloria dagli uomini, né da voi né da altri, anche se come apostoli di Cristo saremmo potuti essere per voi un notevole peso economico.+  E invece fra voi siamo stati premurosi come una madre che nutre i suoi piccoli e ne ha tenera cura.  Così, nel nostro tenero affetto per voi, eravamo decisi non solo a trasmettervi la buona notizia di Dio, ma anche a darvi noi stessi,+ tanto ci eravate divenuti cari.+  Fratelli, sicuramente ricordate i nostri sforzi e la nostra fatica. Quando vi abbiamo predicato la buona notizia di Dio abbiamo lavorato notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi.+ 10  Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, di quanto sia stato leale, giusto e irreprensibile il nostro comportamento verso voi credenti. 11  Sapete bene che abbiamo esortato, consolato e spronato ciascuno di voi+ come un padre+ fa con i figli, 12  affinché continuiate a camminare in modo degno di Dio,+ che vi chiama al suo Regno+ e alla sua gloria.+ 13  Ed è per questo che non smettiamo di ringraziare Dio,+ perché quando avete ricevuto la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accettata non come parola di uomini, ma per quello che in effetti è, parola di Dio, che agisce in voi credenti. 14  Fratelli, voi avete imitato l’esempio delle congregazioni di Dio unite a Cristo Gesù che si trovano in Giudea. Anche voi, infatti, avete subìto dalla vostra gente+ le stesse cose che esse subiscono dai giudei, 15  i quali hanno perfino ucciso il Signore Gesù+ e i profeti, hanno perseguitato noi,+ dispiacciono a Dio e vanno contro l’interesse di tutti gli uomini, 16  cercando di impedirci* di parlare alle persone delle nazioni perché siano salvate.+ In questo modo colmano sempre la misura dei loro peccati. Ma alla fine su di loro è venuta la sua ira.*+ 17  Fratelli, quando siamo stati separati da voi (di persona, non con il cuore), anche se per poco tempo, sentivamo così tanto la vostra mancanza che abbiamo fatto ogni sforzo per riuscire a vedervi di persona.* 18  Per questo volevamo venire da voi, e io, Paolo, ho cercato di farlo non una ma due volte; Satana, però, ce lo ha impedito. 19  Qual è infatti la nostra speranza, la nostra gioia, la nostra corona per cui esultare davanti al nostro Signore Gesù al tempo della sua presenza? Non siete proprio voi?+ 20  Voi siete senz’altro la nostra gloria e la nostra gioia!

Note in calce

O forse “Ma la sua ira è venuta su di loro completamente”.
O “continuando a proibirci”.
Lett. “vedere la vostra faccia”.

Approfondimenti

franchezza O “coraggio”, “assenza di paura”. Il termine greco parresìa può anche essere reso “fiducia” e “libertà di parola” (1Gv 5:14; nt.; At 28:31). Questo sostantivo e il verbo affine (parresiàzomai), spesso reso “parlare [o “predicare”, “dire”] con coraggio [o “liberamente”]”, ricorrono varie volte nel libro degli Atti e trasmettono una caratteristica che contraddistinse la predicazione dei primi cristiani (At 4:29, 31; 9:27, 28; 13:46; 14:3; 18:26; 19:8; 26:26).

sebbene a Filippi avessimo sofferto e ricevuto insulti Qui Paolo si riferisce agli avvenimenti riportati in At 16:12, 16-24. In quell’occasione lui e Sila furono trascinati nella piazza, dove in tutta fretta vennero giudicati dai magistrati, i quali, strappate loro le vesti, ordinarono di bastonarli e gettarli in prigione; lì furono messi ai ceppi. Per descrivere l’atteggiamento di chi li insultò, Paolo ricorre in questo versetto a un verbo molto forte che, secondo un’opera di consultazione, può descrivere un “trattamento che punta volutamente a insultare e umiliare qualcuno in pubblico”. Il disprezzo riservato a Paolo e Sila rende ancora più straordinario il loro coraggio.

abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio Nonostante il trattamento sprezzante ricevuto a Filippi, Paolo e Sila non si fecero intimorire, non si tirarono indietro. Ebbero il coraggio di continuare a predicare (At 17:2-10). Paolo ammette umilmente che il coraggio che mostrarono proveniva da Dio, non era espressione della loro forza interiore. Il salmista Davide riconobbe qualcosa di simile quando disse che era stato Geova a renderlo “intrepido e forte” (Sl 138:3; vedi anche Esd 7:28). Il verbo greco qui reso “trovare il coraggio” è usato varie volte in riferimento al ministero di Paolo, e spesso ha in sé il senso di parlare con coraggio (At 13:46; 14:3; 19:8; vedi approfondimenti ad At 4:13; 28:31).

nonostante una grande opposizione Poco dopo il loro arrivo a Tessalonica, Paolo e Sila affrontarono un’accanita persecuzione (At 17:1-14; vedi approfondimento a 1Ts 1:6). Ma, spinto dal suo amore per il ministero, Paolo sopportò l’opposizione e continuò coraggiosamente a predicare la buona notizia (Ro 1:14, 15; 2Tm 4:2). L’espressione originale potrebbe anche essere resa “in mezzo a molte lotte”, traduzione che implica che per predicare con coraggio lui e Sila resisterono all’opposizione e lottarono contro di essa. A volte l’espressione era usata in riferimento agli atleti che durante le gare delle Olimpiadi si sforzavano con tutto sé stessi per ottenere la vittoria sui loro avversari.

in mezzo a grandi sofferenze Questa espressione si riferisce alla persecuzione che i cristiani di Tessalonica avevano affrontato subito dopo che Paolo e Sila avevano fatto conoscere loro la buona notizia. Fanatici oppositori giudei, infuriati a motivo della diffusione della buona notizia, avevano fomentato una turba affinché assalisse la casa in cui alloggiava Paolo. Non avendolo trovato lì, quei facinorosi avevano trascinato davanti ai capi della città Giasone, che lo ospitava, e qualche altro fratello, accusandoli di sedizione. I fratelli avevano quindi spinto Paolo e Sila a lasciare la città con il favore delle tenebre e ad andare a Berea (At 17:1-10). La cosa straordinaria è che lo spirito santo permise a quei cristiani di conservare la gioia nonostante la persecuzione.

con la massima franchezza O “con tutto il coraggio (assenza di paura)”. Il termine greco parresìa può anche essere reso “libertà di parola” (1Gv 5:14, nt.). Questo sostantivo e il verbo affine (parresiàzomai), spesso reso “parlare [o “predicare”, “dire”] con coraggio [o “liberamente”]”, ricorrono varie volte nel libro degli Atti e trasmettono una caratteristica che contraddistinse la predicazione dei primi cristiani (At 4:29, 31; 9:27, 28; 13:46; 14:3; 18:26; 19:8; 26:26).

motivi impuri Lett. “impurità”. Qui il termine originale è akatharsìa, che in senso metaforico include qualsiasi specie di impurità, sia nella sfera sessuale sia nel parlare, nell’agire o nell’ambito spirituale. (Confronta Ro 1:24; 1Co 7:14; 2Co 6:17; Ef 4:19; 1Ts 4:7.) In questo contesto akatharsìa può riferirsi appunto a motivi sbagliati o impuri. (Vedi approfondimento a Gal 5:19.)

impurità O “depravazione”, “impudicizia”, “sudiciume”. Tra i termini originali usati per le prime tre “opere della carne”, quello reso “impurità” (akatharsìa) è il più ampio. Compare 10 volte nelle Scritture Greche Cristiane. In senso letterale si riferisce a qualcosa che è fisicamente sporco (Mt 23:27). In senso metaforico include qualsiasi specie di impurità, sia nella sfera sessuale sia nel parlare, nell’agire o nell’ambito spirituale, come nel caso del culto di falsi dèi (Ro 1:24; 6:19; 2Co 6:17; 12:21; Ef 4:19; 5:3; Col 3:5; 1Ts 2:3; 4:7). “Impurità” può quindi riferirsi a diversi tipi di trasgressione, che possono essere più o meno gravi. (Vedi approfondimento a Ef 4:19.) Dà risalto alla natura moralmente ripugnante di una condotta sbagliata o della condizione che ne consegue. (Vedi Glossario, “impuro, impurità”.)

Maestro buono Evidentemente l’uomo usò l’espressione “Maestro buono” come titolo adulatorio e formalistico, dato che di solito questo era il trattamento d’onore preteso dai capi religiosi. Anche se Gesù non aveva alcun problema a farsi identificare appropriatamente come “Maestro” e “Signore” (Gv 13:13), attribuì tutto l’onore a suo Padre.

parole adulatrici L’adulazione è una lode falsa, insincera o esagerata, spesso fatta con l’intento di guadagnarsi il favore di qualcuno o di ottenere da lui vantaggi materiali. Le Scritture condannano questo modo di parlare ipocrita (Sl 5:9; 12:2, 3). L’aggettivo “adulatrici” traduce il sostantivo greco kolakìa, che un lessico definisce “lode usata come mezzo per gratificare la vanità di qualcuno”. Questa è l’unica occorrenza di kolakìa nelle Scritture Greche Cristiane. Paolo dice di “non [aver] mai fatto ricorso a parole adulatrici” mentre predicava ai tessalonicesi, e avvalora la sua affermazione aggiungendo: “Dio ne è testimone!” Quando il cristiano evita di farsi adulare, imita l’eccellente esempio di Gesù Cristo. Gesù infatti corresse immediatamente un capo dei giudei che lo aveva chiamato “Maestro buono” usando evidentemente questa espressione come titolo adulatorio (Mr 10:17 e approfondimento, 18; confronta Gb 32:21, 22).

atteggiamenti di facciata In questo contesto il termine greco usato da Paolo trasmette il senso di “pretesto”. Secondo un lessico descrive “ciò che viene mostrato agli altri per mascherare come stanno davvero le cose”. In quello che facevano, Paolo e i suoi compagni d’opera non furono mai spinti dall’avidità, e non ebbero mai bisogno di ricorrere ad adulazione o sotterfugi per nascondere eventuali motivi egoistici.

Non abbiamo [...] cercato gloria dagli uomini È possibile che Paolo, quale umile ministro che si sforzava di imitare Gesù, qui avesse in mente un’espressione simile usata proprio da Gesù quando disse: “Io non ho bisogno della gloria che danno gli uomini” (Gv 5:41; nt.; 7:18; 1Co 11:1). Paolo non intendeva dire che fosse sbagliato mostrare il giusto rispetto, o onore, ai componenti della congregazione. (Confronta Ro 12:10; 1Tm 5:17.) Tuttavia si rifiutava di ricercare onore, prestigio e fama, e non andava in cerca di elogi da parte di esseri umani come lui.

saremmo potuti essere per voi un notevole peso economico Paolo non pretese che i cristiani di Tessalonica lo aiutassero economicamente così che lui potesse dedicarsi di più al ministero; non volle da loro il benché minimo sostegno materiale. Durante la sua permanenza a Corinto si comportò nello stesso modo, anche se in seguito spiegò che sulla base delle Scritture avrebbe potuto chiedere un aiuto (1Co 9:11-15, 18). Stando al v. 9, Paolo lavorò “notte e giorno” mentre era a Tessalonica, forse sempre fabbricando tende, come aveva fatto anche a Corinto. (Vedi approfondimento ad At 18:3.) Può anche darsi che il suo intento fosse quello di lasciare un esempio ai cristiani di Tessalonica (2Ts 3:7-12).

fabbricanti di tende Qui il termine greco skenopoiòs è usato in riferimento al mestiere di Paolo, Aquila e Priscilla. Varie ipotesi sono state avanzate sull’esatta attività indicata da questa parola (fabbricante di tende, tessitore di tappezzeria o cordaio); diversi studiosi, comunque, sostengono che “fabbricante di tende” sia il probabile significato del termine. L’apostolo Paolo era di Tarso, in Cilicia, zona famosa per il tessuto di pelo di capra (chiamato cilicium) con cui si facevano le tende (At 21:39). Gli ebrei del I secolo ritenevano dignitoso che un giovane imparasse un mestiere anche se avrebbe ricevuto un’istruzione superiore. È quindi possibile che Paolo avesse imparato a fabbricare tende da ragazzo. Quello non era un lavoro facile; per quanto si sa, di solito il cilicium era rigido e grezzo, e quindi difficile da tagliare e cucire.

premurosi Paolo e i suoi compagni d’opera erano premurosi con i fratelli di Tessalonica perché li amavano e avevano a cuore la loro crescita spirituale (1Ts 2:8). Ci sono traduzioni però che, invece di “premurosi”, qui hanno il termine “bambini”. La ragione è che alcuni manoscritti greci usano il termine èpioi (“premurosi”), mentre altri nèpioi (“bambini”), due termini che differiscono solo di una lettera. Secondo alcuni studiosi, il fatto che ci siano due lezioni diverse sarebbe frutto dell’errore di qualche copista che ripeté involontariamente la “n”, lettera con cui termina la parola precedente; si tratterebbe quindi di un errore di dittografia. Oltre a ciò, sia il contesto sia il paragone che segue (quello di una madre che nutre i suoi piccoli) fanno propendere per la lezione “premurosi”, lezione adottata da molte traduzioni moderne.

una madre che nutre i suoi piccoli Per dare un’idea dell’affetto che c’era tra lui e i cristiani di Tessalonica (1Ts 3:6), nel giro di pochi versetti Paolo ricorre a due belle similitudini che richiamano il contesto familiare. In questo versetto paragona il rapporto che lui e i suoi compagni d’opera avevano con la congregazione al legame che unisce una madre ai suoi piccoli, una madre che li ama così tanto da mettere il loro bene prima del suo. Nel v. 11 invece ricorre alla similitudine di un padre. (Vedi approfondimento.) Il termine originale reso con l’espressione “una madre che nutre i suoi piccoli” compare solo qui nelle Scritture Greche Cristiane, ma nella Settanta viene usato in Isa 49:23, dove Geova dice che, dopo aver ricondotto il suo popolo dall’esilio, avrebbe provveduto principesse che avrebbero fatto da “nutrici”.

ne ha tenera cura Il verbo greco usato da Paolo significa letteralmente “scaldare”, “tenere caldo”. In questo contesto sembra richiamare l’idea di una madre che si prende cura dei suoi bambini tenendoli al caldo e al sicuro. Nella Settanta questo termine viene usato in De 22:6 (“sta covando”) e in Gb 39:14 (“tiene calde”) per descrivere il modo in cui una chioccia o un altro volatile tiene al caldo i piccoli o le uova.

come un padre fa con i figli Qui Paolo paragona il rapporto che aveva con i tessalonicesi a quello di un padre con i figli, un padre che con amore li esorta e li consola e insegna loro importanti verità. (Confronta De 6:6, 7; Sl 78:5, 6.) Questa similitudine completa quella del v. 7, dove Paolo usa come termine di paragone una madre. (Vedi approfondimento.) Entrambe le immagini evidenziano il fatto che Paolo e i suoi collaboratori, sebbene fossero pastori a cui Dio aveva dato autorità sulla congregazione, cercavano di promuovere al suo interno un’atmosfera affettuosa e solidale, come quella che dovrebbe esserci in una famiglia. (Confronta 1Tm 5:1, 2.)

nel nostro tenero affetto Paolo esprime quello che prova per i cristiani di Tessalonica ricorrendo a un verbo greco che, secondo un lessico, trasmette l’idea di “nutrire un sentimento forte, reso ancora più intenso da un profondo attaccamento”. Altre opere di consultazione spiegano che il verbo originale significa “bramare”, “agognare”, “provare una forte inclinazione per”.

eravamo decisi Paolo e i suoi compagni d’opera provavano “tenero affetto” per coloro che a Tessalonica avevano accettato la buona notizia. Questo sentimento li spinse a spendersi completamente per quei nuovi cristiani. Il verbo greco qui reso “eravamo decisi” (lett. “eravamo lieti”) trasmette l’idea che erano non solo determinati a spendersi per loro ma anche felici di farlo. Un’opera di consultazione spiega inoltre: “Il fatto che il verbo [greco] sia all’imperfetto esprime la determinazione costante [da parte di Paolo] di spendersi per i convertiti”.

noi stessi O “le nostre vite”, “le nostre anime”. (Vedi Glossario, “anima”.)

non essere di peso Vedi approfondimento a 1Ts 2:6.

saremmo potuti essere per voi un notevole peso economico Paolo non pretese che i cristiani di Tessalonica lo aiutassero economicamente così che lui potesse dedicarsi di più al ministero; non volle da loro il benché minimo sostegno materiale. Durante la sua permanenza a Corinto si comportò nello stesso modo, anche se in seguito spiegò che sulla base delle Scritture avrebbe potuto chiedere un aiuto (1Co 9:11-15, 18). Stando al v. 9, Paolo lavorò “notte e giorno” mentre era a Tessalonica, forse sempre fabbricando tende, come aveva fatto anche a Corinto. (Vedi approfondimento ad At 18:3.) Può anche darsi che il suo intento fosse quello di lasciare un esempio ai cristiani di Tessalonica (2Ts 3:7-12).

come un padre fa con i figli Qui Paolo paragona il rapporto che aveva con i tessalonicesi a quello di un padre con i figli, un padre che con amore li esorta e li consola e insegna loro importanti verità. (Confronta De 6:6, 7; Sl 78:5, 6.) Questa similitudine completa quella del v. 7, dove Paolo usa come termine di paragone una madre. (Vedi approfondimento.) Entrambe le immagini evidenziano il fatto che Paolo e i suoi collaboratori, sebbene fossero pastori a cui Dio aveva dato autorità sulla congregazione, cercavano di promuovere al suo interno un’atmosfera affettuosa e solidale, come quella che dovrebbe esserci in una famiglia. (Confronta 1Tm 5:1, 2.)

una madre che nutre i suoi piccoli Per dare un’idea dell’affetto che c’era tra lui e i cristiani di Tessalonica (1Ts 3:6), nel giro di pochi versetti Paolo ricorre a due belle similitudini che richiamano il contesto familiare. In questo versetto paragona il rapporto che lui e i suoi compagni d’opera avevano con la congregazione al legame che unisce una madre ai suoi piccoli, una madre che li ama così tanto da mettere il loro bene prima del suo. Nel v. 11 invece ricorre alla similitudine di un padre. (Vedi approfondimento.) Il termine originale reso con l’espressione “una madre che nutre i suoi piccoli” compare solo qui nelle Scritture Greche Cristiane, ma nella Settanta viene usato in Isa 49:23, dove Geova dice che, dopo aver ricondotto il suo popolo dall’esilio, avrebbe provveduto principesse che avrebbero fatto da “nutrici”.

camminare in modo degno di Dio Qui Paolo usa il verbo “camminare” con il senso di “vivere”, riferendosi al modo di vivere del cristiano. Usa un’espressione simile in Col 1:10. (Vedi approfondimento.)

camminare in modo degno di Geova Il verbo “camminare” qui è usato metaforicamente con il senso di vivere o comportarsi. Nelle sue lettere Paolo usa più volte il verbo “camminare” con un significato metaforico (Gal 5:16; Ef 5:2; Flp 3:17, nt.; Col 2:6; 3:7, nt.; 4:5, nt.; 1Ts 2:12; 4:1). Un’opera di consultazione dice che in questi contesti il verbo è usato in riferimento alla “condotta”, allo “stile di vita”. Questo uso affonda le sue radici nelle Scritture Ebraiche. Un esempio si trova in 2Re 20:3, dove sono riportate queste parole del re Ezechia: “Ti supplico, o Geova, ricorda, ti prego, che ho camminato davanti a te con fedeltà”. Quindi camminare in modo degno di Geova significa vivere in un modo che si riflette favorevolmente sul suo nome e che è in armonia con le sue giuste norme. Paolo usa un’espressione simile in 1Ts 2:12. (Per maggiori informazioni sull’uso del nome divino in questo versetto, vedi App. C3 introduzione; Col 1:10.)

agisce in voi In questo versetto compare due volte il verbo greco energèo, la prima volta reso “agisce” e la seconda “dandovi [...] la forza di agire”. Lo spirito santo di Dio, la sua forza attiva, è la più grande fonte di potenza, o energia, di tutto l’universo. Dio se ne servì per creare tutte le cose (Gen 1:2; Sl 104:30; Isa 40:26). Inoltre, per mezzo dello spirito santo, Geova infonde nei suoi servitori “la forza di agire”, ovvero le energie di cui hanno bisogno quando le loro forze si affievoliscono (Isa 40:31). Lo spirito di Geova può anche affinare le doti naturali di una persona, in base al bisogno (Lu 11:13; 2Co 4:7). L’apostolo Paolo sperimentò spesso questa combinazione in cui ai suoi sforzi personali si sommava l’aiuto fornito da Dio (Flp 4:13; Col 1:29).

avete ricevuto la parola di Dio I cristiani di Tessalonica ricevettero la parola, o messaggio, di Dio tramite l’opera di predicazione di Paolo e Sila (At 17:1-4), ma compresero che non si trattava di un messaggio di origine umana: proveniva da Geova Dio e si basava sulle ispirate Scritture Ebraiche. Dal tempo di Gesù in poi, comunque, il senso dell’espressione “parola di Dio” si ampliò, abbracciando la buona notizia riguardo alla salvezza tramite Gesù (Ef 1:12, 13; Col 4:3). All’epoca della stesura delle Scritture Greche Cristiane, la prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi fu probabilmente il primo dei suoi scritti a diventare parte dell’ispirata Parola di Dio. In seguito l’apostolo Pietro menzionò le lettere di Paolo considerandole alla stregua del “resto delle Scritture” (2Pt 3:15, 16; vedi Glossario, “canone biblico”).

che agisce in voi credenti Il verbo greco qui tradotto “agire” è energèo, lo stesso che compare in Flp 2:13. (Vedi approfondimento.) Il messaggio che Paolo e i suoi collaboratori predicavano non era semplice “parola di uomini” ma “parola di Dio”, ed è per questo che riusciva ad agire potentemente nei credenti sinceri. (In Eb 4:12 un termine affine a energèo è reso “potente”.) Durante il suo ministero Paolo vide molti che, grazie al potere della parola di Dio, fecero cambiamenti straordinari nella loro vita (1Co 6:9-11; Ef 2:3; Tit 3:3). Paolo stesso era una prova vivente del fatto che la parola di Dio è in grado di cambiare la personalità e il modo di vivere di qualcuno (Gal 1:13, 22, 23; 1Tm 1:12-14).

in mezzo a grandi sofferenze Questa espressione si riferisce alla persecuzione che i cristiani di Tessalonica avevano affrontato subito dopo che Paolo e Sila avevano fatto conoscere loro la buona notizia. Fanatici oppositori giudei, infuriati a motivo della diffusione della buona notizia, avevano fomentato una turba affinché assalisse la casa in cui alloggiava Paolo. Non avendolo trovato lì, quei facinorosi avevano trascinato davanti ai capi della città Giasone, che lo ospitava, e qualche altro fratello, accusandoli di sedizione. I fratelli avevano quindi spinto Paolo e Sila a lasciare la città con il favore delle tenebre e ad andare a Berea (At 17:1-10). La cosa straordinaria è che lo spirito santo permise a quei cristiani di conservare la gioia nonostante la persecuzione.

avete subìto dalla vostra gente le stesse cose Vedi approfondimento a 1Ts 1:6.

Dio, che ci ha riconciliato con sé Tutti gli esseri umani hanno bisogno di essere riconciliati con Dio perché il primo uomo, Adamo, disubbidendo trasmise il peccato e l’imperfezione a tutti i suoi discendenti (Ro 5:12). Di conseguenza sono lontani da Dio, in una condizione di inimicizia con lui, visto che le sue stesse norme non gli consentono di condonare la trasgressione (Ro 8:7, 8). I termini greci per “riconciliare” e “riconciliazione” fondamentalmente hanno il significato di “cambiare”, “scambiare”. In questo contesto descrivono il passaggio da un rapporto di ostilità con Dio a uno di amicizia e armonia. Con l’espressione “ci ha riconciliato” Paolo si riferisce a sé stesso, ai suoi collaboratori e a tutti i cristiani unti con lo spirito. Innanzitutto Dio li ha riconciliati con sé mediante Cristo, cioè grazie al suo sacrificio di riscatto. Poi ha affidato loro “il ministero della riconciliazione”. (Vedi approfondimento a Ro 5:10.)

il ministero della riconciliazione Cioè il ministero con il quale gli esseri umani sono aiutati a essere “riconciliati con Dio attraverso la morte di suo Figlio” (Ro 5:10). Con questo ministero si trasmette alle persone lontane da Dio un messaggio urgente affinché stringano una relazione pacifica con lui e diventino suoi amici (2Co 5:18-20; per una trattazione del termine “ministero” [in greco diakonìa], vedi approfondimenti ad At 11:29; Ro 11:13).

dispiacciono a Dio Queste parole si riferiscono a chi cerca di impedire ad altri di riconciliarsi con Dio e ottenere la speranza della salvezza e della vita eterna (1Ts 2:16). Come Paolo quando perseguitava i cristiani, questi oppositori forse pensano di rendere un servizio sacro a Dio (Gv 16:2; Gal 1:13; 1Tm 1:13). In realtà, coloro che perseguitano i cristiani non conoscono veramente né Geova né suo Figlio (Gv 16:3).

contro l’interesse di tutti gli uomini Si può ben dire che chi perseguita i veri cristiani agisce contro gli interessi dell’intera umanità perché l’opera di predicazione che compiono, iniziata da Gesù, è il mezzo che Geova usa per riconciliare con sé gli esseri umani peccatori. (Vedi approfondimenti a 2Co 5:18, 19.)

riconciliava con sé un mondo Il mondo, ovvero tutti gli esseri umani, ha bisogno di essere riconciliato con Dio perché il primo uomo, Adamo, disubbidendo trasmise il peccato e l’imperfezione a tutti i suoi discendenti. (Vedi approfondimento a 2Co 5:18.) Dio sta effettuando questa riconciliazione mediante Cristo, cioè grazie al suo sacrificio espiatorio (Ro 5:10; 2Co 5:21; Col 1:21, 22). Geova ha nominato quelli che sono uniti a Cristo “ambasciatori” in un mondo ostile e ha affidato loro “il ministero della riconciliazione” (2Co 5:18, 20).

completate l’opera dei vostri antenati Lett. “colmate la misura dei vostri padri”. Il senso proprio di questa espressione idiomatica è “colmare un recipiente che qualcun altro ha iniziato a riempire”. Gesù non sta realmente comandando a quei capi ebrei di finire quello che i loro antenati hanno iniziato. Questo ironico comando è un modo per predire che lo uccideranno, proprio come i loro antenati hanno ucciso i profeti di Dio nell’antichità.

colmano sempre la misura dei loro peccati Paolo qui si riferisce ai giudei del I secolo che avevano “ucciso il Signore Gesù” e perseguitavano con violenza i suoi discepoli (1Ts 2:15). Quegli oppositori cercavano anche di impedire ai cristiani di “parlare alle persone delle nazioni”. L’espressione “colmano [...] la misura dei loro peccati” indica che peccavano in una maniera spropositata. Dicendo che lo facevano “sempre”, Paolo intende dire che quei persecutori giudei stavano perpetrando quello che i loro antenati avevano compiuto per secoli. (Vedi approfondimento a Mt 23:32.)

la sua ira Lett. “l’ira”. Il tempo del verbo greco reso è venuta sottolinea che l’ira di Dio si sarebbe abbattuta sui giudei immancabilmente. Questa ira raggiunse il suo culmine con la distruzione di Gerusalemme e del tempio a opera dei romani nel 70. Alcuni antichi manoscritti qui leggono “l’ira di Dio”.

come un padre fa con i figli Qui Paolo paragona il rapporto che aveva con i tessalonicesi a quello di un padre con i figli, un padre che con amore li esorta e li consola e insegna loro importanti verità. (Confronta De 6:6, 7; Sl 78:5, 6.) Questa similitudine completa quella del v. 7, dove Paolo usa come termine di paragone una madre. (Vedi approfondimento.) Entrambe le immagini evidenziano il fatto che Paolo e i suoi collaboratori, sebbene fossero pastori a cui Dio aveva dato autorità sulla congregazione, cercavano di promuovere al suo interno un’atmosfera affettuosa e solidale, come quella che dovrebbe esserci in una famiglia. (Confronta 1Tm 5:1, 2.)

siamo stati separati da voi O “siamo stati privati di voi”. Qui Paolo usa un verbo greco (aporfanìzo) che alla lettera potrebbe essere tradotto “siamo stati resi orfani” e che è affine al termine reso “orfani” (orfanòs) in Gc 1:27. Il verbo, comunque, non era usato solo in riferimento a un figlio che perdeva un genitore, ma anche al lutto in generale, incluso quello di un genitore che perdeva un figlio. Nei vv. 7 e 11 di questo capitolo, Paolo paragona sé stesso e i suoi collaboratori sia a una madre che a un padre. Forse, quindi, qui usa questo verbo per indicare che lui e i suoi collaboratori sentivano così tanto la mancanza della loro famiglia spirituale di Tessalonica che si consideravano come genitori che avevano perso dei figli. Questo è un altro esempio di come, per descrivere il suo rapporto con i compagni di fede, Paolo ricorse a termini tipici del contesto familiare. (Vedi approfondimenti a 1Ts 2:7, 11.)

per poco tempo Paolo usa un’espressione idiomatica che ricorre solo qui nelle Scritture Greche Cristiane e che in modo più letterale potrebbe essere tradotta “per un periodo (tempo stabilito) di un’ora”. Quello che sembra voler dire è questo: anche se era passato poco tempo da che era stato con i fratelli di Tessalonica (forse solo alcuni mesi), Paolo non vedeva l’ora di rincontrarli. Perciò in questo versetto li rassicura che, nonostante la separazione non voluta, aveva fatto di tutto per poterli rivedere. Per confortarli, aveva deciso di mandare loro Timoteo (1Ts 3:1, 2).

una madre che nutre i suoi piccoli Per dare un’idea dell’affetto che c’era tra lui e i cristiani di Tessalonica (1Ts 3:6), nel giro di pochi versetti Paolo ricorre a due belle similitudini che richiamano il contesto familiare. In questo versetto paragona il rapporto che lui e i suoi compagni d’opera avevano con la congregazione al legame che unisce una madre ai suoi piccoli, una madre che li ama così tanto da mettere il loro bene prima del suo. Nel v. 11 invece ricorre alla similitudine di un padre. (Vedi approfondimento.) Il termine originale reso con l’espressione “una madre che nutre i suoi piccoli” compare solo qui nelle Scritture Greche Cristiane, ma nella Settanta viene usato in Isa 49:23, dove Geova dice che, dopo aver ricondotto il suo popolo dall’esilio, avrebbe provveduto principesse che avrebbero fatto da “nutrici”.

Satana [...] ce lo ha impedito O “Satana ci ha intralciato il cammino”. Il verbo che compare nell’originale, presente anche in Ro 15:22, era a volte usato per descrivere quando una strada veniva interrotta e resa impraticabile o anche per indicare la tattica militare di rompere le linee nemiche. Forse Paolo ha in mente qualche tattica che gli oppositori di Tessalonica hanno usato per impedirgli di tornare. Qualunque sia stato l’ostacolo, qui Paolo sotto ispirazione lo attribuisce a Satana, sapendo che è lui “il dio di questo sistema di cose”. (Vedi approfondimenti a Gv 12:31; 2Co 4:4.)

il dio di questo sistema di cose “Il dio” in questione è Satana, com’è chiaramente indicato dal versetto stesso, dove si legge che “ha accecato la mente” dei “non credenti”. Gesù chiamò Satana “il governante di questo mondo” e disse che sarebbe stato “scacciato” (Gv 12:31). La dichiarazione di Gesù e il fatto che Satana venga chiamato “il dio di questo sistema di cose [o “di questa era”, “di questa epoca”]” indicano che la sua autorità è solo temporanea. (Confronta Ri 12:12.)

il governante di questo mondo Un’espressione simile ricorre in Gv 14:30 e 16:11, e si riferisce a Satana il Diavolo. In questo contesto il termine “mondo” (in greco kòsmos) si riferisce alla società umana lontana da Dio, il cui comportamento non è in armonia con il Suo volere. Questo mondo ingiusto non è opera di Dio; è piuttosto “in potere del Malvagio” (1Gv 5:19). Satana e le sue “malvagie forze spirituali che sono nei luoghi celesti” agiscono quali invisibili “governanti mondiali [plurale di kosmokràtor] di queste tenebre” (Ef 6:11, 12).

corona per cui esultare Con questa espressione Paolo si riferisce ai cristiani di Tessalonica. Forse ha in mente la consuetudine di dare a dignitari in visita, funzionari illustri o atleti una corona o un serto come segno di onore e riconoscimento. Il termine greco reso “per cui esultare” trasmette l’idea di gioia, ma può anche denotare vanto e orgoglio. Qui è usato in senso positivo per descrivere il giusto tipo di orgoglio e l’entusiasmo derivanti dal privilegio di aver contribuito alla formazione della congregazione cristiana di Tessalonica (2Ts 1:4; confronta Flp 4:1 e approfondimento a 2Co 10:17).

presenza Nelle sue due lettere ai Tessalonicesi, Paolo menziona la presenza di Cristo sei volte; questa è la prima. (Vedi Glossario, “presenza”; vedi anche “Introduzione a 1 Tessalonicesi”.) Paolo attende con impazienza la presenza del Signore Gesù, e si rallegra all’idea che in quel tempo i suoi cari compagni di fede saranno ricompensati. Più avanti in questa lettera, prega perché siano trovati “irreprensibili nella santità davanti al nostro Dio e Padre al tempo della presenza del nostro Signore Gesù con tutti i suoi santi” (1Ts 3:13; vedi approfondimento a 1Co 15:23).

durante la sua presenza Il termine originale reso “presenza” (parousìa) compare per la prima volta in Mt 24:3, dove alcuni discepoli chiedono a Gesù informazioni sul “segno della [sua] presenza”. Si riferisce alla presenza regale di Gesù Cristo, che comincia con la sua invisibile intronizzazione quale Re messianico all’inizio degli ultimi giorni di questo sistema di cose. Anche se in molte traduzioni bibliche è reso “venuta”, il termine parousìa letteralmente significa “l’essere presso”, “l’esserci”. La presenza di Gesù copre un periodo di tempo, non si riferisce semplicemente al momento della sua “venuta”, al suo arrivo. Questo significato di parousìa emerge da Mt 24:37-39, dove la “presenza del Figlio dell’uomo” è paragonata ai “giorni di Noè [...] prima del diluvio”. Inoltre il termine parousìa è usato in Flp 2:12, dove Paolo contrappone il periodo in cui era “presente” al periodo in cui era “lontano”, o assente. (Vedi approfondimento a 1Co 16:17.) Quindi qui in 1Co 15:23 Paolo sta spiegando che la risurrezione in cielo di quelli che appartengono al Cristo, cioè gli unti fratelli coeredi di Cristo, sarebbe avvenuta qualche tempo dopo la sua intronizzazione come Re celeste del Regno di Dio.

si vanti in Geova Nelle Scritture Greche Cristiane il verbo usato nel testo originale (kauchàomai), qui reso “vantarsi”, potrebbe anche essere tradotto “provare orgoglio”, “esultare”, “rallegrarsi”; è usato sia in senso positivo che in senso negativo. Paolo, per esempio, dice: “Rallegriamoci [o “vantiamoci”] nella speranza della gloria di Dio” (Ro 5:2). ‘Vantarsi in Geova’ significa essere orgogliosi di avere lui come nostro Dio, rallegrarsi per il suo buon nome e la sua reputazione (Ger 9:23, 24).

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