Lettera ai Filippesi 2:1-30

2  Se dunque c’è qualche incoraggiamento in Cristo, qualche consolazione che nasce dall’amore, qualche comunione di spirito, se ci sono tenero affetto e compassione,+  rendete completa la mia gioia avendo lo stesso modo di pensare e lo stesso amore, essendo perfettamente uniti e dello stesso pensiero.+  Non fate nulla per rivalità*+ o vanagloria,+ ma, con umiltà, considerate gli altri superiori a voi;+  non cercate solamente il vostro interesse,+ ma anche quello degli altri.+  Abbiate lo stesso modo di pensare di Cristo Gesù,+  il quale, pur esistendo nella forma di Dio,+ non prese nemmeno in considerazione l’idea di cercare di essere uguale a Dio.+  Al contrario, svuotò sé stesso, assunse la forma di uno schiavo+ e divenne come gli uomini.*+  Per di più, quando venne come uomo, umiliò sé stesso e divenne ubbidiente fino alla morte,+ la morte su un palo di tortura.+  Per questo Dio lo ha innalzato a una posizione superiore+ e gli ha benevolmente dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome,+ 10  affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e sottoterra+ 11  e ogni lingua riconosca pubblicamente che Gesù Cristo è Signore+ alla gloria di Dio Padre. 12  Quindi, miei cari, proprio come avete sempre ubbidito, non solo quando ero presente ma ancora di più adesso che sono lontano, continuate a operare per la vostra salvezza con timore e trepidazione. 13  Dio infatti è colui che, secondo il proprio volere, agisce in voi dandovi sia il desiderio che la forza di agire.+ 14  Continuate a fare tutto senza mormorii+ e disaccordi,+ 15  così da essere irreprensibili e innocenti, figli di Dio+ senza difetto in mezzo a una generazione corrotta e perversa,+ in mezzo alla quale risplendete come luce nel mondo,+ 16  mantenendo una salda presa sulla parola di vita.+ Così nel giorno di Cristo potrò rallegrarmi+ sapendo di non aver corso né faticato inutilmente. 17  Comunque, anche se sono versato come una libagione+ sul sacrificio+ e sul servizio sacro a cui vi ha condotto la fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi. 18  Allo stesso modo anche voi gioite e rallegratevi con me. 19  Spero nel Signore Gesù di mandarvi presto Timòteo,+ così da avere vostre notizie ed esserne incoraggiato. 20  Non ho nessun altro che abbia la sua stessa disposizione d’animo* e si preoccupi sinceramente di voi.+ 21  Tutti gli altri infatti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. 22  Ma voi sapete quale prova lui ha dato di sé: come un figlio+ con il padre, ha servito insieme a me per diffondere la buona notizia. 23  Perciò è lui che spero di mandarvi non appena avrò visto la piega che prenderà la mia situazione. 24  Comunque sono fiducioso nel Signore che presto verrò anch’io.+ 25  Ma per ora ritengo necessario mandarvi Epafrodìto, mio fratello e compagno d’opera e di battaglia, che voi avete inviato per provvedere ai miei bisogni.+ 26  Lui infatti desidera moltissimo vedere tutti voi ed è sconfortato perché siete venuti a sapere che si era ammalato. 27  In effetti si era ammalato così gravemente che aveva rischiato di morire; ma Dio ha avuto misericordia di lui, e non solo di lui ma anche di me, perché non avessi un dolore dopo l’altro. 28  Perciò ve lo mando con la massima premura, affinché possiate rallegrarvi di nuovo nel rivederlo e anch’io possa essere meno preoccupato. 29  Accoglietelo dunque com’è consuetudine nel Signore con grande gioia e tenete in alta stima gli uomini come lui,+ 30  perché per l’opera di Cristo è stato in punto di morte, rischiando la vita per offrirmi l’aiuto che voi non potevate darmi di persona.+

Note in calce

O “spirito di contesa”.
O “prese la figura degli uomini”.
O “personalità”, “indole”.

Approfondimenti

incoraggiamento O “esortazione”. Il sostantivo greco originale (paràklesis) è affine a un verbo (parakalèo) che letteralmente significa “chiamare a sé”. Spesso ha il senso di “incoraggiamento” (At 13:15; Flp 2:1) o “conforto” (Ro 15:4; 2Co 1:3, 4; 2Ts 2:16). Come indica la resa alternativa, questo termine e il verbo affine presente nello stesso versetto trasmettono anche l’idea di “esortazione”, ed è proprio così che vengono resi in alcuni contesti (1Ts 2:3; 1Tm 4:13; Eb 12:5). Il fatto che questi termini greci abbiano in sé i tre significati di esortazione, conforto e incoraggiamento indica che un cristiano non dovrebbe mai esortare o consigliare qualcuno in modo duro o aspro.

incoraggiamento [...] consolazione Paolo qui usa due termini greci dal significato simile. Il sostantivo reso “incoraggiamento” (paràklesis) ha un significato ampio. Oltre che “incoraggiamento”, come qui e altrove (At 13:15; Eb 6:18), può essere reso “esortazione” (1Ts 2:3; 1Tm 4:13; Eb 12:5) o “conforto” (Ro 15:4; 2Co 1:3, 4; 2Ts 2:16). (Vedi approfondimento a Ro 12:8.) Il sostantivo reso “consolazione” (paramỳthion) deriva da un verbo che significa “consolare”, “tirare su di morale” oppure “parlare a qualcuno in modo amichevole”. (Confronta approfondimento a 1Co 14:3.) Sembra che Paolo intenda dire che, incoraggiandosi e consolandosi l’un l’altro, i filippesi saranno in grado di rafforzare il legame che tiene unita la congregazione (Flp 2:2).

comunione di spirito Questa espressione si riferisce a uno stretto rapporto caratterizzato da interessi comuni e desiderio di condivisione. (Per una trattazione del termine greco koinonìa, qui reso “comunione”, vedi approfondimento ad At 2:42.) In questo versetto e nel successivo, Paolo fa capire che, quando perseguono insieme obiettivi spirituali e operano in armonia con la guida dello spirito santo di Dio, i cristiani creano un legame d’unità che il mondo non può intaccare. (Vedi approfondimento a Flp 2:2.) Commentando l’uso del termine originale in questo versetto, un dizionario biblico afferma: “Questo tipo di condivisione presuppone che si abbia la forma mentis di chi considera gli altri superiori a sé” (2Co 13:14; vedi approfondimento a Gv 17:21).

tenero affetto Qui compare il termine greco splàgchnon, che in questo contesto indica un sentimento profondo, un’emozione intensa. (Vedi approfondimento a 2Co 6:12.)

tenero affetto Il termine greco usato qui (splàgchnon) alla lettera indica gli organi interni. In At 1:18 è tradotto “viscere [“intestini”]”. Qui in 2Co 6:12 indica un sentimento profondo, un’emozione intensa. È una delle parole più forti in greco per denotare il sentimento della compassione.

uno O “in unità”, “uniti”. Gesù pregò che i suoi veri discepoli fossero “uno”, che lavorassero insieme accomunati dallo stesso obiettivo, proprio come lui e il Padre sono “uno” dando prova di cooperazione e unità d’intenti (Gv 17:22). In 1Co 3:6-9 Paolo descrive proprio questo tipo di unità, l’unità esistente fra ministri cristiani che collaborano tra loro e con Dio. (Vedi 1Co 3:8 e approfondimenti a Gv 10:30; 17:11.)

essendo perfettamente uniti Questa espressione traduce il termine greco sỳnpsychos (di cui esiste anche la variante sỳmpsychos), che è formato da syn (“con”, “insieme”) e psychè (a volte reso “anima”); si potrebbe anche rendere “essendo uniti nell’anima”. Nel contesto Paolo usa questa e altre espressioni per sottolineare il fatto che i cristiani di Filippi dovevano impegnarsi per promuovere l’unità. (Vedi approfondimento a Flp 2:1.)

stare insieme O “condividere”. Il significato basilare del termine greco koinonìa è “condivisione”, “partecipazione”. Nelle sue lettere Paolo usò diverse volte questa parola, che è stata resa anche con “essere uniti” e “avere in comune” (1Co 1:9; nt.; 10:16; 2Co 6:14; 13:14). Qui il contesto dimostra che questo tipo di rapporto implica un’intima amicizia piuttosto che una conoscenza superficiale.

incoraggia e consola In greco sia il termine paràklesis (qui tradotto “incoraggia”) che il termine paramythìa (qui tradotto “consola”) trasmettono l’idea di incoraggiamento, ma il secondo denota un maggior grado di tenerezza e conforto. In Gv 11:19, 31 compare il verbo affine paramythèomai riferito ai giudei che andarono a consolare Maria e Marta per la morte del fratello Lazzaro. (Vedi anche 1Ts 5:14, dove lo stesso verbo è tradotto “confortare”.)

comunione di spirito Questa espressione si riferisce a uno stretto rapporto caratterizzato da interessi comuni e desiderio di condivisione. (Per una trattazione del termine greco koinonìa, qui reso “comunione”, vedi approfondimento ad At 2:42.) In questo versetto e nel successivo, Paolo fa capire che, quando perseguono insieme obiettivi spirituali e operano in armonia con la guida dello spirito santo di Dio, i cristiani creano un legame d’unità che il mondo non può intaccare. (Vedi approfondimento a Flp 2:2.) Commentando l’uso del termine originale in questo versetto, un dizionario biblico afferma: “Questo tipo di condivisione presuppone che si abbia la forma mentis di chi considera gli altri superiori a sé” (2Co 13:14; vedi approfondimento a Gv 17:21).

essendo perfettamente uniti Questa espressione traduce il termine greco sỳnpsychos (di cui esiste anche la variante sỳmpsychos), che è formato da syn (“con”, “insieme”) e psychè (a volte reso “anima”); si potrebbe anche rendere “essendo uniti nell’anima”. Nel contesto Paolo usa questa e altre espressioni per sottolineare il fatto che i cristiani di Filippi dovevano impegnarsi per promuovere l’unità. (Vedi approfondimento a Flp 2:1.)

Non diventiamo presuntuosi Dopo aver messo in contrasto “le opere della carne” con “il frutto dello spirito” (Gal 5:19-23), Paolo aggiunge le chiare parole che si trovano in questo versetto. Il termine greco tradotto “presuntuoso” (kenòdoxos) descrive un futile desiderio di gloria e alla lettera ha in sé il senso di “vanagloria”. Ricorre solo qui nelle Scritture Greche Cristiane. Secondo un lessico viene utilizzato per indicare chi ha un’esagerata opinione di sé, chi è borioso e si vanta. Fa pensare a chi ha il forte desiderio di ricevere lodi senza che ce ne sia un motivo davvero valido. In Flp 2:3 si trova un termine greco affine che è stato reso “vanagloria”.

umiltà Questa qualità è il contrario dell’orgoglio o dell’arroganza. L’umiltà è evidente nel modo in cui una persona considera sé stessa in relazione a Dio e agli altri. Non è indice di debolezza, ma di una condizione mentale che piace a Geova. I cristiani che sono veramente umili riescono a collaborare in modo unito (Ef 4:2; Flp 2:3; Col 3:12; 1Pt 5:5). Il sostantivo greco tapeinofrosỳne, qui tradotto “umiltà”, deriva dal verbo tapeinòo, “rendere basso”, e dal sostantivo frèn, “mente”. Potrebbe quindi essere reso alla lettera “modestia di mente”. Il termine affine tapeinòs è reso “modesto” in Mt 11:29 e “umili” in Gc 4:6; 1Pt 5:5. (Vedi approfondimento a Mt 11:29.)

vanagloria Eccessiva opinione di sé. (Vedi l’approfondimento a Gal 5:26, dove un termine greco affine è reso “presuntuosi”.)

umiltà O “modestia di mente”. (Vedi approfondimento ad At 20:19.)

considerate gli altri superiori a voi O “considerate gli altri più importanti di voi”. (Vedi anche Ro 12:3; 1Co 10:24; Flp 2:4.)

lo stesso modo di pensare di Cristo Gesù Il contesto fa capire che il modo di pensare di Gesù a cui si riferisce Paolo era caratterizzato dall’umiltà (Flp 2:3, 4).

Dio è uno Spirito Il termine greco pnèuma è qui usato per indicare un essere spirituale. (Vedi Glossario, “spirito”.) Le Scritture dimostrano che Dio, il glorificato Gesù e gli angeli sono spiriti (1Co 15:45; 2Co 3:17; Eb 1:14). Uno spirito è una forma di vita notevolmente diversa dagli uomini ed è invisibile all’occhio umano. Gli esseri spirituali hanno un “corpo spirituale” che è di gran lunga superiore al “corpo fisico” (1Co 15:44; Gv 1:18). È vero che gli scrittori biblici hanno descritto Dio come se avesse un volto, occhi, orecchie, mani e così via, ma le loro sono descrizioni metaforiche; le hanno usate per aiutare gli uomini a capire che tipo di persona è Dio. Le Scritture mostrano chiaramente che Dio ha una personalità. Inoltre vive in un luogo al di là dell’universo fisico, per questo Cristo disse: “Vado dal Padre” (Gv 16:28). In Eb 9:24 si legge che Cristo entrò “nel cielo stesso, per presentarsi [...] davanti a Dio per noi”.

pur esistendo nella forma di Dio Il termine greco morfè, che fondamentalmente significa “forma”, trasmette l’idea di “aspetto”, “figura”, “sembianza”. Gesù era una persona spirituale proprio come Dio, che “è uno Spirito” (Gv 4:24 e approfondimento). Lo stesso termine greco è usato per dire che Gesù assunse “la forma di uno schiavo” quando “[diventò] carne”, cioè diventò un essere umano (Flp 2:7; Gv 1:14).

non prese nemmeno in considerazione l’idea di cercare di essere uguale a Dio O “non considerò l’uguaglianza con Dio qualcosa da afferrare”. Paolo qui incoraggia i filippesi a coltivare un modo di pensare esemplare come quello di Gesù. Al v. 3 dice loro: “Con umiltà, considerate gli altri superiori a voi”. Al v. 5 aggiunge: “Abbiate lo stesso modo di pensare di Cristo Gesù”. Gesù, che considerava Dio superiore, non cercò mai di ‘afferrare l’uguaglianza con Dio’. Piuttosto, “umiliò sé stesso e divenne ubbidiente fino alla morte” (Flp 2:8; Gv 5:30; 14:28; 1Co 15:24-28). Il suo punto di vista non era come quello del Diavolo, che aveva spinto Eva a voler diventare come Dio, a voler essere uguale a Lui (Gen 3:5). Menzionando Gesù, Paolo non poteva ricorrere a esempio migliore per sottolineare l’importanza dell’umiltà e dell’ubbidienza al Creatore, Geova Dio. (Vedi l’approfondimento cercare di essere in questo versetto.)

cercare di essere Nell’originale compare il sostantivo harpagmòs, che deriva dal verbo harpàzo. Questo verbo ha il significato fondamentale di “prendere qualcosa con la forza”, “arraffare”. Secondo alcuni, si riferisce al tenersi stretto qualcosa di cui si è già in possesso. Ma nelle Scritture non è mai usato con questa accezione. Compare invece con il senso di “afferrare”, “impossessarsi”, “rapire” o “portare via” qualcosa di cui non si è in possesso (Mt 11:12; 12:29; 13:19; Gv 6:15; 10:12, 28, 29; At 8:39; 23:10; 2Co 12:2, 4; 1Ts 4:17; Gda 23; Ri 12:5). Quindi, se Gesù “non [cercò] di essere uguale a Dio”, vuol dire che lui uguale a Dio non lo è mai stato.

svuotò sé stesso Alla lettera il verbo greco qui reso “svuotare” dà l’idea di privare qualcosa del suo contenuto. Paolo lo usa metaforicamente in riferimento a Gesù, che rinunciò alla sua natura spirituale per vivere e soffrire come essere umano sulla terra. A differenza degli angeli che in alcune circostanze si rivestirono di corpi fisici per comparire agli uomini, Gesù abbandonò completamente il suo corpo spirituale insieme alla gloria e ai privilegi a esso associati. Nessun essere umano ha mai sacrificato qualcosa di lontanamente paragonabile a quello a cui Gesù rinunciò per far piacere a Dio.

quando venne come uomo Lett. “essendo stato trovato nell’aspetto come uomo”. (Vedi approfondimento a Flp 2:6.)

palo di tortura O “palo per l’esecuzione”. Gesù diede il più eloquente esempio di umiltà e ubbidienza sottoponendosi di sua volontà alla “morte su un palo di tortura”, condannato ingiustamente come criminale e bestemmiatore (Mt 26:63-66; Lu 23:33; vedi Glossario, “palo”; “palo di tortura”). Dimostrò oltre ogni dubbio che gli esseri umani possono rimanere fedeli a Geova anche se sottoposti a prove estreme (Gv 5:30; 10:17; Eb 12:2).

pur esistendo nella forma di Dio Il termine greco morfè, che fondamentalmente significa “forma”, trasmette l’idea di “aspetto”, “figura”, “sembianza”. Gesù era una persona spirituale proprio come Dio, che “è uno Spirito” (Gv 4:24 e approfondimento). Lo stesso termine greco è usato per dire che Gesù assunse “la forma di uno schiavo” quando “[diventò] carne”, cioè diventò un essere umano (Flp 2:7; Gv 1:14).

ha benevolmente dato Il verbo greco qui usato (charìzomai) ha la stessa radice del termine che è spesso tradotto “immeritata bontà” e che può anche essere reso “favore divino” (Gv 1:14 e approfondimento). In questo contesto trasmette l’idea che Dio ha deciso di dare a Gesù un nome eccelso, “che è al di sopra di ogni altro nome”, perché mosso dalla propria amorevole generosità e dalla propria benevolenza. Il fatto che Dio, il Padre, abbia potuto prendere questa decisione porta a concludere che Lui dev’essere più grande di Gesù, il Figlio, e che il Figlio dev’essergli subordinato (Gv 14:28; 1Co 11:3). Quindi qualunque onore venga attribuito a Gesù a motivo della sua elevata posizione va “alla gloria di Dio Padre” (Flp 2:11).

il nome Nella Bibbia il termine “nome” a volte indica qualcosa di più di una semplice etichetta. (Vedi approfondimento a Mt 24:9.) Ad esempio, “il nome” che Dio ha dato a Gesù rappresenta l’autorità e la posizione che gli ha conferito. Qui nel capitolo 2 il contesto mostra che Gesù ricevette questo eccelso nome dopo la risurrezione (Mt 28:18; Flp 2:8, 10, 11; Eb 1:3, 4).

ogni altro nome Qui molte traduzioni usano una resa letterale del testo greco, ovvero “ogni nome”, resa che però potrebbe dare l’impressione che il nome di Gesù sia al di sopra anche del nome di Dio. Tuttavia un’idea del genere non sarebbe in armonia con il contesto, perché Paolo dice che “Dio lo ha innalzato a una posizione superiore e gli ha benevolmente dato [questo] nome”. Inoltre il termine greco qui presente, che di solito significa “ogni”, “tutto”, “tutti”, in alcuni casi ha il senso di “ogni altro” o “tutti gli altri”. Si noti ad esempio la resa “tutti gli altri” in Lu 13:2; 21:29 e Flp 2:21. Pertanto il contesto e il modo in cui il termine originale è usato in altre occorrenze avallano la resa “ogni altro”. Paolo quindi sta dicendo che il nome di Gesù è al di sopra di ogni altro nome, a eccezione di quello di Geova, colui che quel nome gliel’ha dato. (Vedi anche 1Co 15:28.)

a causa del mio nome Nella Bibbia il termine “nome” a volte viene usato per indicare non solo la persona che lo porta ma anche la sua reputazione e tutto ciò che quella persona rappresenta. (Vedi approfondimento a Mt 6:9.) Nel caso di Gesù, il suo nome rappresenta anche l’autorità e la posizione che suo Padre gli ha conferito (Mt 28:18; Flp 2:9, 10; Eb 1:3, 4). Qui Gesù spiega che i suoi discepoli sarebbero stati odiati a motivo di ciò che il suo nome rappresenta, cioè la sua posizione di Re scelto da Dio, di Re dei re, colui al quale tutti devono inchinarsi in segno di sottomissione per avere la vita. (Vedi approfondimento a Gv 15:21.)

favore divino O “immeritata bontà”. Il termine greco chàris ricorre più di 150 volte nelle Scritture Greche Cristiane e, a seconda del contesto, può trasmettere diverse sfumature di significato. Quando si riferisce all’immeritata bontà che Dio mostra agli uomini, denota un dono gratuito che Dio fa in modo generoso, senza aspettarsi nulla in cambio. È espressione della sua grande liberalità, nonché della sua bontà e del suo immenso amore. Si tratta di qualcosa di non guadagnato e non meritato da chi riceve, motivato unicamente dalla generosità del donatore (Ro 4:4; 11:6). Il termine non sottolinea necessariamente che chi è oggetto di questa bontà ne sia indegno, motivo per cui anche Gesù può essere oggetto del favore, o bontà, di Dio. In contesti che riguardano Gesù, chàris è appropriatamente reso “favore divino”, come in questo versetto, o “favore” (Lu 2:40, 52). In altri casi ancora, il termine greco è reso “favore” e “generoso dono” (Lu 1:30; At 2:47; 7:46; 1Co 16:3; 2Co 8:19).

affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio Questa espressione significa che ogni creatura intelligente in cielo e sulla terra deve riconoscere la posizione ricoperta da Gesù e sottomettersi alla sua autorità. (Vedi approfondimento a Mt 28:19.)

sottoterra Qui a quanto pare si fa riferimento ai morti, che come disse Gesù si trovano “nelle tombe commemorative” (Gv 5:28, 29). Quando verranno risuscitati, anche loro dovranno sottomettersi all’autorità di Cristo e “[riconoscere] pubblicamente che Gesù Cristo è Signore alla gloria di Dio Padre” (Flp 2:11).

nel nome Il termine greco reso “nome” (ònoma) può riferirsi non solo a un nome in sé. In questo contesto implica il riconoscimento dell’autorità e della posizione del Padre e del Figlio nonché del ruolo dello spirito santo. Questo riconoscimento permette di instaurare un rapporto nuovo con Dio. (Confronta approfondimento a Mt 10:41.)

dichiari pubblicamente In alcune Bibbie il verbo greco usato qui (homologèo) è reso “confessare”. Secondo molti lessici significa “dichiarare (riconoscere) apertamente”, “professare pubblicamente”. Nel v. 10 lo stesso verbo è tradotto “fare la dichiarazione pubblica”. Paolo spiega che non è sufficiente avere fede nel proprio cuore; per ottenere la salvezza, il cristiano deve fare una dichiarazione pubblica della propria fede (Sl 40:9, 10; 96:2, 3, 10; 150:6; Ro 15:9). Il cristiano non fa questa dichiarazione pubblica una sola volta, ad esempio al battesimo, ma ogni volta che si riunisce con i suoi compagni di fede e ogni volta che proclama ad altri la buona notizia della salvezza (Eb 10:23-25; 13:15).

Gesù è Signore Quando Gesù era sulla terra, alcuni che non erano suoi discepoli lo chiamarono “Signore”, usando il termine come appellativo di riguardo o di cortesia; anche la samaritana, quando lo chiamò “Signore”, lo fece per rispetto nei suoi confronti (Mt 8:2; Gv 4:11). Il termine greco usato dagli scrittori della Bibbia (Kỳrios) ha un significato molto ampio, che può variare a seconda del contesto. Tuttavia, Gesù indicò che, chiamandolo “Signore”, i suoi discepoli (o allievi) non gli dimostravano semplicemente rispetto, ma lo riconoscevano come loro Maestro o Padrone (Gv 13:13, 16). Specialmente da quando Gesù, dopo la sua morte e risurrezione, ha assunto la sua gloriosa posizione celeste, il titolo “Signore” a lui attribuito ha un significato più profondo. Offrendo la sua vita in sacrificio, Gesù acquistò i suoi discepoli e così diventò sia il loro Padrone (1Co 7:23; 2Pt 2:1; Gda 4; Ri 5:9, 10) che il loro Re (Col 1:13; 1Tm 6:14-16; Ri 19:16). Riconoscere Gesù quale Signore non significa soltanto chiamarlo con questo titolo. I veri cristiani devono riconoscere la sua posizione e ubbidirgli (Mt 7:21; Flp 2:9-11).

Signore Il termine greco qui presente, Kỳrios (“Signore”), nelle Scritture è generalmente usato come sostantivo, ma a rigore è anche un aggettivo che significa “che ha autorità (potere)” (da kỳros, “potere”). Ricorre in tutti i libri delle Scritture Greche Cristiane tranne che nella lettera di Paolo a Tito e nelle lettere di Giovanni. Essendo il Figlio di Dio, da lui creato, ed essendo suo Servitore, Gesù Cristo si rivolge al suo Dio e Padre (Gv 20:17) chiamandolo giustamente “Signore” (Kỳrios), visto che è il suo Capo, Colui che ha autorità e potere superiori (Mt 11:25; 1Co 11:3). Tuttavia il titolo “Signore” nella Bibbia non è usato solo in riferimento a Geova Dio. È usato anche a proposito di Gesù Cristo (Mt 7:21; Ro 1:4, 7), di uno degli anziani che Giovanni vide in cielo in una delle sue visioni (Ri 7:13, 14), di angeli (Da 12:8), di uomini (At 16:16, 19, 30; qui tradotto anche “padroni”) e di false divinità (1Co 8:5). Secondo alcuni, l’espressione “Gesù è Signore” implica che lui e suo Padre, Geova, siano la stessa persona. Dal contesto, però, si capisce chiaramente che non è così, perché di Gesù viene detto che “Dio lo ha risuscitato dai morti”. Gesù ha ricevuto autorità quale Signore dal Padre (Mt 28:18; Gv 3:35; 5:19, 30). (Vedi l’approfondimento Gesù è Signore in questo versetto.)

Gesù è Signore Quando Gesù era sulla terra, alcuni che non erano suoi discepoli lo chiamarono “Signore”, usando il termine come appellativo di riguardo o di cortesia; anche la samaritana, quando lo chiamò “Signore”, lo fece per rispetto nei suoi confronti (Mt 8:2; Gv 4:11). Il termine greco usato dagli scrittori della Bibbia (Kỳrios) ha un significato molto ampio, che può variare a seconda del contesto. Tuttavia, Gesù indicò che, chiamandolo “Signore”, i suoi discepoli (o allievi) non gli dimostravano semplicemente rispetto, ma lo riconoscevano come loro Maestro o Padrone (Gv 13:13, 16). Specialmente da quando Gesù, dopo la sua morte e risurrezione, ha assunto la sua gloriosa posizione celeste, il titolo “Signore” a lui attribuito ha un significato più profondo. Offrendo la sua vita in sacrificio, Gesù acquistò i suoi discepoli e così diventò sia il loro Padrone (1Co 7:23; 2Pt 2:1; Gda 4; Ri 5:9, 10) che il loro Re (Col 1:13; 1Tm 6:14-16; Ri 19:16). Riconoscere Gesù quale Signore non significa soltanto chiamarlo con questo titolo. I veri cristiani devono riconoscere la sua posizione e ubbidirgli (Mt 7:21; Flp 2:9-11).

riconosca pubblicamente O “proclami apertamente”, “confessi”. Il contesto mostra che questo riconoscimento pubblico della posizione di Gesù è connesso con la convinzione che Geova lo ha risuscitato dai morti. (Confronta approfondimento a Ro 10:9.)

Gesù Cristo è Signore Vedi approfondimento a Ro 10:9.

Signore (Vedi approfondimento a Ro 10:9.) Alcuni sostengono che l’espressione “Gesù Cristo è Signore” significa che lui e il Padre, Geova, sono la stessa persona. Tuttavia il contesto mostra chiaramente che non è affatto così, dal momento che “Dio lo ha innalzato a una posizione superiore e gli ha benevolmente dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Flp 2:9; vedi approfondimento a Ro 10:9).

presente [...] lontano Lett. “nella presenza [...] nell’assenza”. Qui Paolo contrappone due termini greci, parousìa e apousìa: il primo per descrivere un periodo di tempo in cui era lì presente con i cristiani a Filippi, e il secondo per descrivere un periodo di tempo in cui era assente, ovvero non era con loro, era lontano. Questo ci permette di capire meglio il senso del termine parousìa. In vari casi è usato in relazione alla presenza invisibile di Gesù Cristo, cominciata quando fu intronizzato in cielo quale Re messianico, all’inizio degli ultimi giorni di questo sistema di cose. (Vedi approfondimenti a Mt 24:3; 1Co 15:23; Flp 1:26.)

continuate a operare Il verbo originale ha il senso fondamentale di “compiere”, “portare a compimento”, “produrre”. Il tempo verbale usato in greco indica uno sforzo continuo; trasmette quindi il senso di persistere finché non si sia portato a compimento qualcosa.

quando sarò di nuovo con voi In questa espressione, che si potrebbe anche rendere “mediante la mia presenza di nuovo con voi”, in greco compare il sostantivo parousìa, che letteralmente significa “l’essere presso”, “l’esserci”. Qui Paolo lo usa esprimendo la sua speranza di tornare a trovare i fratelli di Filippi. Spesso parousìa è reso “presenza”, specialmente in relazione alla presenza invisibile di Gesù Cristo (Mt 24:37; 1Co 15:23). Questa accezione è confermata dall’uso che Paolo fa di parousìa in Flp 2:12 (vedi approfondimento), dove contrappone il periodo in cui era “presente” al periodo in cui era “lontano”, o assente. (Vedi approfondimenti a Mt 24:3; 1Co 16:17.)

durante la sua presenza Il termine originale reso “presenza” (parousìa) compare per la prima volta in Mt 24:3, dove alcuni discepoli chiedono a Gesù informazioni sul “segno della [sua] presenza”. Si riferisce alla presenza regale di Gesù Cristo, che comincia con la sua invisibile intronizzazione quale Re messianico all’inizio degli ultimi giorni di questo sistema di cose. Anche se in molte traduzioni bibliche è reso “venuta”, il termine parousìa letteralmente significa “l’essere presso”, “l’esserci”. La presenza di Gesù copre un periodo di tempo, non si riferisce semplicemente al momento della sua “venuta”, al suo arrivo. Questo significato di parousìa emerge da Mt 24:37-39, dove la “presenza del Figlio dell’uomo” è paragonata ai “giorni di Noè [...] prima del diluvio”. Inoltre il termine parousìa è usato in Flp 2:12, dove Paolo contrappone il periodo in cui era “presente” al periodo in cui era “lontano”, o assente. (Vedi approfondimento a 1Co 16:17.) Quindi qui in 1Co 15:23 Paolo sta spiegando che la risurrezione in cielo di quelli che appartengono al Cristo, cioè gli unti fratelli coeredi di Cristo, sarebbe avvenuta qualche tempo dopo la sua intronizzazione come Re celeste del Regno di Dio.

presenza Il termine greco parousìa (reso “venuta” in molte traduzioni bibliche) significa letteralmente “l’essere presso”, “l’esserci”. Si riferisce a una presenza che si protrae per un periodo di tempo, e non a un semplice arrivo, una “venuta”. Questo significato di parousìa emerge da Mt 24:37-39, dove la “presenza del Figlio dell’uomo” è paragonata ai “giorni di Noè [...] prima del diluvio”. Inoltre, il termine parousìa è usato in Flp 2:12, dove Paolo contrappone il periodo in cui era “presente” al periodo in cui era “lontano”, o assente.

agisce in voi In questo versetto compare due volte il verbo greco energèo, la prima volta reso “agisce” e la seconda “dandovi [...] la forza di agire”. Lo spirito santo di Dio, la sua forza attiva, è la più grande fonte di potenza, o energia, di tutto l’universo. Dio se ne servì per creare tutte le cose (Gen 1:2; Sl 104:30; Isa 40:26). Inoltre, per mezzo dello spirito santo, Geova infonde nei suoi servitori “la forza di agire”, ovvero le energie di cui hanno bisogno quando le loro forze si affievoliscono (Isa 40:31). Lo spirito di Geova può anche affinare le doti naturali di una persona, in base al bisogno (Lu 11:13; 2Co 4:7). L’apostolo Paolo sperimentò spesso questa combinazione in cui ai suoi sforzi personali si sommava l’aiuto fornito da Dio (Flp 4:13; Col 1:29).

dandovi [...] il desiderio A motivo di scoraggiamento, debolezze e altri fattori, alcuni fedeli del passato persero il desiderio di servire Dio, o addirittura di continuare a vivere (1Re 19:4; Sl 73:13, 14; Gna 4:2, 3). Paolo qui mostra che, quando questo desiderio vacilla, Dio è felice di motivare i suoi servitori, specialmente se gli chiedono aiuto (Sl 51:10, 11; 73:17, 18).

Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro Gli israeliti mormorarono lamentandosi contro Geova in diverse occasioni. Per esempio criticarono aspramente Mosè e Aronne quando 10 dei 12 esploratori fecero un rapporto negativo dopo aver ispezionato il paese di Canaan. Proposero addirittura di nominare qualcun altro che li guidasse al posto di Mosè, e pensarono che sarebbe stato meglio tornare in Egitto (Nu 14:1-4). In seguito “tutta l’assemblea [...] iniziò a mormorare” a motivo della morte dei ribelli Cora, Datan e Abiram e di quelli che si erano schierati dalla loro parte. A quanto pare coloro che mormorarono pensavano che quella condanna a morte fosse stata ingiusta, e le loro lamentele contagiarono tanti altri. Geova reagì mandando un flagello che uccise 14.700 israeliti (Nu 16:41, 49). Per Geova era come se i mormorii contro i suoi rappresentanti fossero rivolti a lui personalmente (Nu 17:5).

senza mormorii I mormorii includono lamentele o discorsi negativi, spesso fatti non apertamente ma alle spalle dei diretti interessati. Chi mormora per abitudine cerca di influenzare gli altri. Potrebbe dare troppa importanza ai propri sentimenti o alla propria posizione, attirando in questo modo l’attenzione su di sé anziché su Dio. Avere l’abitudine di mormorare può creare malcontento tra i fratelli e ostacolare così i loro sforzi di servire Geova in unità. Scrivendo alla congregazione di Corinto, intorno al 55, Paolo aveva ricordato che i mormorii degli israeliti nel deserto avevano suscitato l’ira di Geova. (Vedi approfondimento a 1Co 10:10.) Comunque non tutte le lamentele sono disapprovate da Dio. Ad esempio, il termine greco per “mormorii” compare anche in At 6:1, dove si legge che i giudei di lingua greca a Gerusalemme “iniziarono a lamentarsi” perché le loro vedove venivano trascurate dal punto di vista materiale. Fu proprio grazie a questo che gli apostoli fecero sì che la situazione venisse corretta (At 6:1-6).

sono versato come una libagione O “la mia vita è versata come una libagione”. Gli israeliti accompagnavano quasi tutte le offerte con delle libagioni, ovvero offerte che consistevano nel versare vino sull’altare (Le 23:18, 37; Nu 15:2, 5, 10; 28:7). Qui Paolo si riferisce metaforicamente a sé stesso come a una libagione. Paolo desiderava spendersi completamente, sia dal punto di vista fisico che emotivo, per sostenere i filippesi e gli altri compagni di fede mentre questi presentavano i loro sacrifici spirituali e rendevano a Dio il loro “servizio sacro”. (Confronta 2Co 12:15.) Poco prima di morire, scrisse a Timoteo: “Quanto a me, vengo già versato come una libagione, e il tempo della mia liberazione è imminente” (2Tm 4:6).

servizio sacro O “servizio pubblico”. Paolo applica questa espressione al ministero cristiano. Il servizio che aveva svolto con impegno e premura a favore dei compagni di fede di Filippi era stato una benedizione per loro. Di conseguenza la loro fede li aveva spinti a impegnarsi nello stesso servizio a favore di altri. Essendo Filippi una colonia romana, la parola greca usata qui da Paolo, leitourgìa, avrà richiamato alla mente dei cristiani locali le responsabilità civili dei cittadini, responsabilità che richiedevano che si svolgessero dei servizi per la comunità. (Vedi approfondimento a 2Co 9:12.) Svolgere questi servizi comportava un costo economico, il che ricordava ai filippesi che anche servire Dio fedelmente richiede sacrifici personali. Nelle Scritture Greche Cristiane, leitourgìa e altri termini affini sono spesso usati in riferimento al servizio presso il tempio e al ministero cristiano. (Per ulteriori spiegazioni sull’uso di questi termini, vedi approfondimenti a Lu 1:23; At 13:2; Ro 13:6; 15:16.)

servitore pubblico Il sostantivo greco leitourgòs deriva dai termini laòs, “popolo”, ed èrgon, “lavoro”. In origine era usato dagli antichi greci in riferimento a qualcuno che svolgeva un lavoro per le autorità civili, di solito a spese proprie, a beneficio della comunità. Si trattava di una consuetudine comune anche nel mondo romano. Nella Bibbia questo termine di solito si riferisce a chi svolge un incarico sacro. Il termine affine leitourgìa è frequentemente usato nella Settanta in riferimento ai “compiti” (Nu 7:5) e al “servizio” (Nu 4:28; 1Cr 6:32 [6:17, LXX]) svolti dai sacerdoti presso il tabernacolo e presso il tempio di Geova a Gerusalemme. Qui Paolo usa leitourgòs in riferimento a sé stesso, visto che proclamava la buona notizia di Dio quale “apostolo delle nazioni”, ovvero dei non ebrei (Ro 11:13). Questa sua predicazione era effettivamente un servizio di grande utilità pubblica, in particolare per le persone delle nazioni.

svolgono un servizio pubblico Il sostantivo greco leitourgòs (“servitore pubblico”, “lavoratore pubblico”) e i termini affini leitourgèo (“svolgere un servizio pubblico”) e leitourgìa (“servizio pubblico”) erano usati nel mondo classico in riferimento a un lavoro o servizio compiuto per lo Stato o le autorità civili e a beneficio della comunità. (I termini greci menzionati sopra derivano da laòs, “popolo”, ed èrgon, “lavoro”.) Qui si legge che le autorità secolari “svolgono un servizio pubblico” (in greco è presente il plurale di leitourgòs) per Dio, nel senso che provvedono servizi utili per la comunità. Nelle Scritture Greche Cristiane, comunque, questi termini greci sono spesso usati in riferimento al servizio presso il tempio e al ministero cristiano. (Per ulteriori spiegazioni su quest’ultimo uso dei termini, vedi approfondimenti a Lu 1:23; At 13:2; Ro 15:16.)

servivano O “servivano pubblicamente”. Il verbo greco leitourgèo qui usato e i termini affini leitourgìa (“servizio pubblico”, “ministero pubblico”) e leitourgòs (“servitore pubblico”, “lavoratore pubblico”) erano usati dagli antichi greci in riferimento a un lavoro o servizio compiuto per lo Stato o le autorità civili e a beneficio della comunità. Ad esempio, in Ro 13:6 si legge che le autorità secolari “svolgono un servizio pubblico” (in greco è presente il plurale di leitourgòs) per Dio, nel senso che provvedono servizi utili per la comunità. In Lu 1:23 (vedi approfondimento) il termine leitourgìa è reso “servizio sacro” (o “servizio pubblico”) ed è usato in riferimento a Zaccaria, padre di Giovanni Battista. In quel versetto l’uso di leitourgìa riflette il modo in cui la Settanta usa questo e termini affini per il servizio dei sacerdoti e dei leviti nel tabernacolo (Eso 28:35; Nu 1:50; 3:31; 8:22) e nel tempio (2Cr 31:2; 35:3; Gle 1:9, 13; 2:17). Era quindi implicata l’idea di un servizio svolto per il bene del popolo. Comunque in alcuni contesti era inclusa l’idea di santità, dato che i sacerdoti levitici insegnavano la Legge di Dio (2Cr 15:3; Mal 2:7) e offrivano sacrifici che coprivano i peccati del popolo (Le 1:3-5; De 18:1-5). Qui in At 13:2 il verbo greco leitourgèo è usato in senso più ampio per descrivere le attività che i profeti e i maestri cristiani svolgevano nella congregazione di Antiochia di Siria. Si riferisce ai vari atti di devozione a Dio e alle diverse forme di servizio a lui reso, inclusi aspetti del ministero cristiano come la preghiera, la predicazione e l’insegnamento. Il ministero svolto da questi profeti e maestri includeva senza dubbio la predicazione (At 13:3).

servizio sacro O “servizio pubblico”. Il sostantivo greco leitourgìa qui usato e i termini affini leitourgèo (“svolgere un servizio pubblico”) e leitourgòs (“servitore pubblico”, “lavoratore pubblico”) erano usati nel mondo classico in riferimento a un lavoro o servizio compiuto per lo Stato o le autorità civili e a beneficio della comunità. Ad esempio, in Ro 13:6 si legge che le autorità secolari “svolgono un servizio pubblico” (in greco è presente il plurale di leitourgòs) per Dio, nel senso che provvedono servizi utili per la comunità. Il modo in cui Luca usa qui questo termine riflette l’uso che ne viene fatto nella Settanta, dove il verbo e i relativi sostantivi si riferiscono spesso al servizio svolto dai sacerdoti e dai leviti (Eso 28:35; Nu 8:22). Il servizio presso il tempio era sia un servizio pubblico svolto per il bene del popolo sia un servizio sacro, dato che i sacerdoti levitici insegnavano la Legge di Dio e offrivano sacrifici che coprivano i peccati del popolo (2Cr 15:3; Mal 2:7).

l’adempimento di questo servizio pubblico Lett. “il ministero di questo servizio pubblico”. Con il termine “ministero” Paolo si riferisce a quanto organizzato per soccorrere i cristiani ebrei di Gerusalemme e della Giudea e “[soddisfarne] ampiamente le necessità”. Questo “servizio” era davvero utile per quei cristiani. Il sostantivo greco leitourgìa, qui reso “servizio pubblico”, e i termini affini leitourgèo (“svolgere un servizio pubblico”) e leitourgòs (“servitore pubblico”, “lavoratore pubblico”) erano usati nel mondo classico in riferimento a un lavoro o servizio compiuto per lo Stato o le autorità civili e a beneficio della comunità. Nelle Scritture Greche Cristiane, comunque, questi termini sono spesso usati in riferimento al servizio presso il tempio e al ministero cristiano. (Per ulteriori spiegazioni su quest’ultimo uso dei termini, vedi approfondimenti a Lu 1:23; At 13:2; Ro 13:6; 15:16.)

Spero [...] di mandarvi presto Timoteo Il racconto non specifica se Timoteo avrebbe fatto questo viaggio da Roma a Filippi via terra o via mare. Chi viaggiava da Roma verso oriente poteva o percorrere le strade del vasto sistema viario dell’impero o imbarcarsi. Entrambe le opzioni comportavano delle difficoltà. Si pensi ad esempio a un eventuale viaggio via mare: all’epoca era difficile trovare un passaggio su una nave, e chi riusciva a salire a bordo rimaneva di giorno e di notte sul ponte, quali che fossero le condizioni meteorologiche; se le acque erano agitate, si poteva soffrire di mal di mare e a volte si rischiava il naufragio. Raggiungere Filippi via terra invece comportava un viaggio di una quarantina di giorni; poteva richiedere che si percorresse un tratto della Via Appia, che ci si imbarcasse per una breve traversata nel Mare di Adria e che infine si proseguisse via terra, forse lungo la Via Egnatia. (Vedi App. B13.) Il viandante doveva fare i conti con gli elementi naturali, come sole, pioggia, caldo e freddo, e con il rischio di essere aggredito dai briganti. I luoghi in cui pernottare sono descritti da autori dell’epoca come malfamati, sudici, sovraffollati e infestati dalle pulci. (Confronta approfondimento ad At 28:15.) Eppure, Paolo era sicuro che Timoteo fosse disposto ad affrontare questo viaggio, come pure quello di ritorno, per portargli notizie riguardo alla salute spirituale dei cristiani di Filippi.

Foro Appio O “Mercato Appio” (in latino Appii Forum). Era un mercato situato circa 65 km a SE di Roma e un rinomato luogo di sosta sulla celebre Via Appia, strada che andava da Roma a Brindisi (l’antica Brundisium) passando per Capua (l’odierna Santa Maria Capua Vetere). Sia la strada che il mercato presero il nome da Appio Claudio Cieco, sotto il quale cominciarono i lavori nel IV secolo a.E.V. Dal momento che di solito i viaggiatori da Roma si fermavano qui al termine del primo giorno di viaggio, questa stazione di posta diventò un importante mercato e centro commerciale. Ad accrescerne l’importanza contribuiva la sua posizione su un canale che scorreva parallelo alla strada, attraverso le paludi pontine. Pare che i viaggiatori percorressero questo canale di notte su chiatte tirate da muli. Il poeta romano Orazio descrisse i disagi del viaggio, lamentandosi delle rane e delle zanzare e descrivendo il Foro Appio come un luogo “brulicante di barcaioli e di osti malandrini” (Satire, Libro I, V, 4, 14, trad. di M. Ramous, Garzanti, Milano, 1989). Nonostante tutti i disagi, comunque, la delegazione proveniente da Roma aspettò con gioia Paolo e i suoi compagni per accompagnarli sani e salvi nell’ultimo tratto del loro viaggio. Oggi lungo la Via Appia, sul sito del Foro Appio, sorge un piccolo centro chiamato Borgo Faiti. (Vedi App. B13.)

Prisca e Aquila Questa coppia di fedeli cristiani era stata espulsa da Roma in seguito al decreto contro gli ebrei emanato dall’imperatore Claudio nel 49 o all’inizio del 50. Nel 54 Claudio morì, e verso il 56, quando Paolo scrisse questa lettera, Prisca e Aquila erano di nuovo a Roma. (Vedi approfondimento ad At 18:2.) Paolo li definisce suoi compagni d’opera. Il termine greco tradotto “compagno d’opera” (synergòs) compare 12 volte nelle Scritture Greche Cristiane, soprattutto nelle lettere di Paolo (Ro 16:9, 21; Flp 2:25; 4:3; Col 4:11; Flm 1, 24). È interessante che Paolo usi lo stesso termine greco quando in 1Co 3:9 dice: “Siamo collaboratori di Dio”.

Epafrodito Epafrodito era un cristiano fidato della congregazione di Filippi; viene menzionato solo in questa lettera. Era stato mandato a Roma per recapitare un dono a Paolo, all’epoca agli arresti. Probabilmente Epafrodito aveva intenzione di rimanere a Roma per qualche tempo così da essere di aiuto a Paolo anche in altri modi. Purtroppo però “si era ammalato così gravemente che aveva rischiato di morire”, perciò era dovuto tornare a Filippi prima del previsto (Flp 2:27, 28; vedi approfondimenti a Flp 2:26, 30).

compagno d’opera Vedi approfondimenti a Ro 16:3; 1Co 3:9.

che voi avete inviato Qui Paolo usa il termine greco per “apostolo” (apòstolos) nel suo significato base, che è “mandato”, “inviato” o “messaggero”. Epafrodito era stato mandato a Roma in rappresentanza della congregazione di Filippi per consegnare un dono a Paolo, all’epoca detenuto.

collaboratori di Dio Il termine greco tradotto “collaboratore” (synergòs) compare più di una decina di volte nelle Scritture Greche Cristiane, soprattutto nelle lettere di Paolo. In genere è reso “compagno d’opera” e si riferisce a chi partecipa insieme ad altri alla diffusione della buona notizia (Ro 16:9, 21; 2Co 1:24; 8:23; Flp 2:25; 4:3; Col 4:11; Flm 1, 24). Qui Paolo richiama l’attenzione sul grande privilegio che i ministri cristiani hanno di essere anche compagni d’opera, o collaboratori, di Dio. (Vedi approfondimento a 1Co 3:6.) Esprime lo stesso concetto in 2Co 6:1, dove ancora una volta parla dell’essere “collaboratori” di Dio (2Co 5:20; vedi approfondimento a Ro 16:3).

rischiando la vita O “esponendo la sua anima al pericolo”. A quanto pare assolvere il compito di andare a Roma e portare un dono a Paolo, che era detenuto, comportò dei rischi per Epafrodito. Ad esempio, potrebbero essere state le condizioni malsane in cui si trovò durante il viaggio o nei pernottamenti, per come erano nel I secolo, la ragione per cui “si era ammalato così gravemente che aveva rischiato di morire” (Flp 2:26, 27). Ad ogni modo Paolo dice che, se Epafrodito era stato “in punto di morte”, era stato “per l’opera di Cristo”. Paolo aveva quindi ottime ragioni per lodare Epafrodito e rivolgere alla congregazione di Filippi queste parole: “Accoglietelo dunque com’è consuetudine nel Signore con grande gioia e tenete in alta stima gli uomini come lui” (Flp 2:29; vedi approfondimenti a Flp 2:25, 26 e Glossario, “anima”).

è sconfortato Il verbo greco usato qui da Paolo compare anche nei Vangeli per descrivere l’agonia di Gesù nel giardino di Getsemani; lì si legge che era “molto angosciato” (Mt 26:37; Mr 14:33). Secondo un lessico, il verbo denota uno stato d’ansia, inquietudine o turbamento. Lo sconforto di Epafrodito era dovuto al fatto che la congregazione di Filippi era venuta a sapere che si era ammalato. Forse lo preoccupava che la congregazione potesse pensare che aveva fallito nel suo compito di assistere Paolo e che era invece diventato un peso per lui. Una volta che Epafrodito si fu rimesso, non passò molto che Paolo lo rimandò a Filippi con una lettera per la congregazione. Nella lettera spiegava le ragioni per cui Epafrodito era dovuto tornare prima del previsto (Flp 2:25-29), rassicurando così la congregazione, e senza dubbio Epafrodito stesso, del fatto che lo considerava prezioso e stimava la sua fede. (Vedi approfondimenti a Flp 2:25, 30.)

desidera moltissimo vedere tutti voi Alcuni antichi manoscritti non contengono il verbo reso “vedere”, e alcune Bibbie traducono di conseguenza. I manoscritti a disposizione, però, forniscono prove considerevoli a sostegno della lezione che è stata adottata nel testo. In ogni caso, a prescindere dalla lezione che si adotta, il senso generale delle parole di Paolo rimane lo stesso: Epafrodito sentiva la mancanza di tutti i cristiani di Filippi. (Vedi App. A3.)

è sconfortato Il verbo greco usato qui da Paolo compare anche nei Vangeli per descrivere l’agonia di Gesù nel giardino di Getsemani; lì si legge che era “molto angosciato” (Mt 26:37; Mr 14:33). Secondo un lessico, il verbo denota uno stato d’ansia, inquietudine o turbamento. Lo sconforto di Epafrodito era dovuto al fatto che la congregazione di Filippi era venuta a sapere che si era ammalato. Forse lo preoccupava che la congregazione potesse pensare che aveva fallito nel suo compito di assistere Paolo e che era invece diventato un peso per lui. Una volta che Epafrodito si fu rimesso, non passò molto che Paolo lo rimandò a Filippi con una lettera per la congregazione. Nella lettera spiegava le ragioni per cui Epafrodito era dovuto tornare prima del previsto (Flp 2:25-29), rassicurando così la congregazione, e senza dubbio Epafrodito stesso, del fatto che lo considerava prezioso e stimava la sua fede. (Vedi approfondimenti a Flp 2:25, 30.)

rischiando la vita O “esponendo la sua anima al pericolo”. A quanto pare assolvere il compito di andare a Roma e portare un dono a Paolo, che era detenuto, comportò dei rischi per Epafrodito. Ad esempio, potrebbero essere state le condizioni malsane in cui si trovò durante il viaggio o nei pernottamenti, per come erano nel I secolo, la ragione per cui “si era ammalato così gravemente che aveva rischiato di morire” (Flp 2:26, 27). Ad ogni modo Paolo dice che, se Epafrodito era stato “in punto di morte”, era stato “per l’opera di Cristo”. Paolo aveva quindi ottime ragioni per lodare Epafrodito e rivolgere alla congregazione di Filippi queste parole: “Accoglietelo dunque com’è consuetudine nel Signore con grande gioia e tenete in alta stima gli uomini come lui” (Flp 2:29; vedi approfondimenti a Flp 2:25, 26 e Glossario, “anima”).

Epafrodito Epafrodito era un cristiano fidato della congregazione di Filippi; viene menzionato solo in questa lettera. Era stato mandato a Roma per recapitare un dono a Paolo, all’epoca agli arresti. Probabilmente Epafrodito aveva intenzione di rimanere a Roma per qualche tempo così da essere di aiuto a Paolo anche in altri modi. Purtroppo però “si era ammalato così gravemente che aveva rischiato di morire”, perciò era dovuto tornare a Filippi prima del previsto (Flp 2:27, 28; vedi approfondimenti a Flp 2:26, 30).

l’opera di Cristo O forse “l’opera del Signore”. Anche se alcuni antichi manoscritti qui riportano “Signore” invece di “Cristo”, la lezione adottata nel testo è ben attestata nei manoscritti disponibili.

rischiando la vita O “esponendo la sua anima al pericolo”. A quanto pare assolvere il compito di andare a Roma e portare un dono a Paolo, che era detenuto, comportò dei rischi per Epafrodito. Ad esempio, potrebbero essere state le condizioni malsane in cui si trovò durante il viaggio o nei pernottamenti, per come erano nel I secolo, la ragione per cui “si era ammalato così gravemente che aveva rischiato di morire” (Flp 2:26, 27). Ad ogni modo Paolo dice che, se Epafrodito era stato “in punto di morte”, era stato “per l’opera di Cristo”. Paolo aveva quindi ottime ragioni per lodare Epafrodito e rivolgere alla congregazione di Filippi queste parole: “Accoglietelo dunque com’è consuetudine nel Signore con grande gioia e tenete in alta stima gli uomini come lui” (Flp 2:29; vedi approfondimenti a Flp 2:25, 26 e Glossario, “anima”).

è sconfortato Il verbo greco usato qui da Paolo compare anche nei Vangeli per descrivere l’agonia di Gesù nel giardino di Getsemani; lì si legge che era “molto angosciato” (Mt 26:37; Mr 14:33). Secondo un lessico, il verbo denota uno stato d’ansia, inquietudine o turbamento. Lo sconforto di Epafrodito era dovuto al fatto che la congregazione di Filippi era venuta a sapere che si era ammalato. Forse lo preoccupava che la congregazione potesse pensare che aveva fallito nel suo compito di assistere Paolo e che era invece diventato un peso per lui. Una volta che Epafrodito si fu rimesso, non passò molto che Paolo lo rimandò a Filippi con una lettera per la congregazione. Nella lettera spiegava le ragioni per cui Epafrodito era dovuto tornare prima del previsto (Flp 2:25-29), rassicurando così la congregazione, e senza dubbio Epafrodito stesso, del fatto che lo considerava prezioso e stimava la sua fede. (Vedi approfondimenti a Flp 2:25, 30.)

Epafrodito Epafrodito era un cristiano fidato della congregazione di Filippi; viene menzionato solo in questa lettera. Era stato mandato a Roma per recapitare un dono a Paolo, all’epoca agli arresti. Probabilmente Epafrodito aveva intenzione di rimanere a Roma per qualche tempo così da essere di aiuto a Paolo anche in altri modi. Purtroppo però “si era ammalato così gravemente che aveva rischiato di morire”, perciò era dovuto tornare a Filippi prima del previsto (Flp 2:27, 28; vedi approfondimenti a Flp 2:26, 30).

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